immagini che guardano 

thesis abstract by giuditta vettese 
università statale di milano, 2017



Lo sguardo ha un incontestabile potere espressivo e comunicativo, che rintracciamo anche in espressioni di uso comune come “Gli occhi sono lo specchio dell’anima”, “Perché mi guardi?”, “Cos’hai da guardare?”, o “Vedi?” – al posto di “capisci?” -, o ancora “Guardami!” – imperativo che i bambini non si stancano di rivolgere alle proprie mamme, ma che si rivela molto spontaneo anche nel corso di conversazioni accese.
Come si dice, uno sguardo può essere più eloquente di mille parole. Uno sguardo può bastare per innamorarsi o respingersi, per sentirsi perseguitati o immediatamente compresi: esiste un linguaggio degli occhi che gli innamorati conoscono bene, quasi che l’amore consistesse, fra le altre cose, nell’addomesticare il carattere di sospetto ed estraneità che ogni primo scambio di sguardi porta con sé con più o meno intensità.

Nessuno può negare la meraviglia e lo stupore di poter assistere allo spettacolo del mondo, di vedere le forme inenarrabili in cui il vivente si incarna e il piacere estetico che può derivarne: l’ordine del visibile ha uno statuto autonomo, una propria ontologia, una propria vitalità in cui il soggetto è preso[1], captato. Il potere del visibile è d’altronde oggi più che mai evidente: vivere nel nostro secolo è anche un vivere di immagini, di schermi, di icone.
Lo statuto dell’iconico si estende ben al di là dell’immagine canonica, perché siamo tutti a tal punto immersi nel regime del visibile che la nostra identità si lega da sempre ad un farsi immagine, ad un abbigliarsi che manifesta la nostra iscrizione nel visibile. Allo stesso modo in cui guardiamo, noi siamo guardati e sappiamo di esserlo.
Ma è possibile sentirsi guardati da un’immagine?

L’idea di una schisi tra occhio e sguardo, dunque della possibilità che la funzione di sguardo si estenda alle cose indipendentemente dalla funzione organica della visione operata dall’occhio, è presente nel pensiero e nella ricerca di molti autori del Novecento francese quali Sartre, Merleau-Ponty, Caillois, Bataille e Lacan. Quest’ultimo ha in un certo senso istituzionalizzato il concetto inedito di pulsione scopica – legando il desiderio alla visione - e, successivamente, quello di indipendenza dello sguardo dall’occhio. Ciò che accomuna tutte queste ricerche seppur così eterogenee rendendole un punto di riferimento essenziale per le nuove frontiere della filosofia dell’immagine è senz’altro, come scrive Andrea Pinotti, il loro essere «ugualmente impegnate in una critica dell’oculocentrismo e del tradizionale paradigma epistemologico fondato sulla pietra angolare del soggetto umano che domina gnoseologicamente il mondo per mezzo del nobile senso della vista»[2]. Analizziamo perciò qui brevemente quanto, e come, il concetto lacaniano di schisi tra occhio e sguardo nonché, di conseguenza, quello di immagine “guardante”, è presente nel pensiero di alcuni degli autori successivi a Lacan e legati a quell’iconic turn[3] che ha dato origine al settore dei visual culture studies[4] che hanno colto l’esigenza di estendere l’analisi delle immagini al di là della sola storiografia artistica comprendendo l’architettura, il design, lo spettacolo, il costume, l’artigianato, la scienza, gli ambienti digitali.

Oggi le immagini, non è una novità, sono onnipresenti. Al di fuori della dimensione strettamente artistica - dove per altro, in arte contemporanea, si assiste a una progressiva decostruzione del paradigma classico dell’immagine-quadro e, dunque, ad una estensione quasi illimitata del concetto di immagine - il sistema economico, culturale e politico del mondo contemporaneo gravita attorno alla forza del regime iconico: pubblicità, moda, grafica, cinema, informazione, social networks - i regni del narcisismo odierno il quale, al posto che dello specchio, si avvale dell’immagine-selfie - e web, per citare solo “le punte dell’iceberg”, sono le sfere dell’ordinario e incessante consumo di immagini. Come afferma Georges Didi-Huberman, «l’immagine ha esteso a tal punto il suo dominio che diventa difficile, oggi, pensare senza dover ‘orientarsi nell’immagine’»[5].

Il punto fondamentale è qui l’idea di una certa agency delle immagini in quanto dotate di una propria capacità di azione e di effetto, cosa d’altronde ormai certificata anche a livello neuroscientifico, dove le teorie dell’empatia indagano tutta una serie di risposte psicosomatiche al potere delle immagini. Ci si confronta ora con una crescente performatività delle immagini: «Nel contesto degli studi di cultura visuale, il disaccoppiamento dell’associazione fra occhio e sguardo ha consentito di mettere in discussione la tradizionale opposizione binaria fra un soggetto attivo riguardante (lo spettatore) e un oggetto passivo riguardato (l’immagine). Quel che si instaura è piuttosto una relazione di quasi-intersoggettività tra i fruitori e le immagini»[6].

Il mondo ci plasma tanto quanto noi lo plasmiamo, o crediamo di fare: in questo senso l’attenzione dei visual culture studies si rivolge anche all’influenza dei paradigmi culturali che coinvolgono la aisthesis - sempre variabili, storicamente e politicamente determinati - sull’esperienza visiva soggettiva: lo sguardo è sempre «situato»[7] in un contesto storico, culturale, politico e tecnologico particolare. Di fatti un’analisi di questo tipo non può prescindere dallo studio dei dispositivi tecnici e dei media che contribuiscono al delinearsi del sistema percettivo di una determinata epoca storica: Walter Benjamin, il teorico dell’aura[8] e pioniere indiscusso - insieme a Alois Riegl e Heinrich Wöfflin - di questo tipo di approccio allargato all’apparato estetico di una cultura, ha coniato il concetto di inconscio ottico[9] e di innervazione[10]. Jonathan Crary propone in Le tecniche dell’osservatore di sostituire il termine “spettatore” con quello di osservatore proprio per sottolineare etimologicamente il carattere interattivo della percezione in quanto culturalmente situata: «riteniamo il verbo ‘osservare’ più inerente al nostro studio poiché la sua radice latina, observare, significa letteralmente ‘adeguarsi a’, ‘conformarsi’: si utilizza infatti nell’espressione ‘osservare le regole’, i regolamenti, i codici, le pratiche. Sebbene sia evidente che si tratta dell’azione del guardare, un osservatore è soprattutto un individuo che compie tale azione all’interno di una determinata serie di possibilità, un soggetto che è dunque inquadrato in un sistema di convenzioni e limitazioni. […] se possiamo affermare che esiste uno specifico osservatore proprio del XIX secolo, è soltanto in termini di costruzione di un effetto prodotto da un sistema irriducibilmente eterogeneo di rapporti discorsivi, sociali, tecnologici e istituzionali. A questo sistema non preesiste dunque nessun soggetto osservatore.»[11]. Come è stato osservato, «la questione della percezione investe direttamente la controversa ipotesi di una plasticità della percezione, cioè di una permeabilità dei processi percettivi rispetto a fattori extrapercettivi»[12] che invita a ridimensionare le rigide distinzioni tra soggetto e oggetto, corpo e mondo, attività e passività, immagine e realtà. Questo significa che noi impariamo a percepire il mondo anche in maniera socio-culturalmente trasmessa e ci porta a concepire l’esistenza dello “sguardo di un’epoca“.

Ma le immagini intrattengono con la storia del pensiero umano un profondo legame, e molto più di quanto si è soliti ammettere nella comune tendenza a riservare un primato al linguaggio verbale. Pensiamo per esempio alla geometria, all’ingegneria, dove è difficile pensare senza immagini, o a come le tecnologie medico-scientifiche si avvalgano di dispositivi scopici: radiografi, microscopi, radar, gps... Anche in poesia e letteratura, molto spesso, si creano delle immagini. Gottfried Boehm, volendo ripristinare la centralità dell’attività poietica dell’immagine[13] come «inevitabile figura dell’autofondazione filosofica»[14] passa in rassegna una serie di autori il cui pensiero dimostra, secondo lui, l’essenza metaforica e quindi di stampo iconico del pensiero filosofico, ovvero Plotino, Gadamer, Kant, Wittgenstein, Nietzsche, Husserl; in questa rassegna attribuisce a Lacan e Merleau-Ponty una posizione fondativa nel contesto di quel ritorno delle immagini[15] che ha segnato il XIX secolo, proprio per il fatto di aver riportato il visibile al suo carattere «dinamico e autodeterminato»[16].

Il rapporto tra immagine e linguaggio necessita perciò secondo Boehm di essere ricalibrato: se è impossibile forzare i due termini a una coincidenza, è tuttavia nel concetto di metafora e nella sua struttura di contrasto[17]che si trova il punto di congiunzione, il tertium «tra immagini linguistiche (come metafore) e l’immagine nel senso dell’arte figurativa»[18]: «la connessione di senso riuscita e saliente è accompagnata da un’eterogeneità sempre presente. Il vero ‘miracolo’ della metafora è la fruttuosità del contrasto che in essa viene posto. Tale contrasto risponde a qualcosa di simultaneo, che possiamo cogliere con un colpo d’occhio: a qualcosa che noi chiamiamo immagine.»[19].

Il luogo nativo di ogni senso immaginale[20] è dunque quello di un contrasto visivo fondamentale[21], tra figura e sfondo, superficie e profondità, opacità cosale e trasparenza del senso[22], tra l’intero intuitivo dell’immagine, che cogliamo con un colpo d’occhio, e le sue singole determinazioni interne. Nella struttura del contrasto si trova la specifica differenza iconica[23] che costituisce la potenza «al contempo visiva e logica»[24] delle immagini, sempre in equilibrio tra una singolarità formale e materiale irriducibile e il senso che trascende questa realtà fattuale, sempre in grado di produrre «un’eccedenza di senso nel campo delimitato della materia.»[25]. Questa peculiare tensione iconica è a rischio se si traduce in una caduta verso la mera copia del reale, negandosi come immagine e basta. Questo è anche il meccanismo che sottostà a una certa iconoclastia della società mediatica contemporanea, che «mette in moto una marea di immagini, la cui tendenza fondamentale mira alla suggestione, al surrogato immaginale della realtà, nei cui criteri rientra da sempre quello di occultare i confini della propria immaginalità.»[26]. La forza dell’immagine è proprio nel suo essere immagine, emanazione originale del regime di visibilità dell’essere: «le immagini sono processi, raffigurazioni, che non si limitano a ripetere ciò che è dato, bensì rendono visibile, fanno scaturire una ‘crescita dell’essere’. La loro esistenza si orienta al ‘vivente’ (zoon), che i greci, ricordati da Gadamer, utilizzarono come nome per le immagini.»[27]

W. J. T. Mitchell, un altro capofila della svolta iconica che abbiamo descritto, ha condotto un’originale indagine sull’antica questione del potere delle immagini e della loro efficacia, virando il discorso sull’immagine dalla dimensione del suo significato, quindi della sua interpretazione, a quella del suo desiderio, operando consapevolmente su di essa una personificazione che a prima vista potrebbe venire giudicata come “primitiva”. Secondo Mitchell l’atteggiamento animistico nei confronti delle immagini è ancora del tutto attuale - nella società contemporanea più che mai si tende a trattare le immagini come se fossero persone - e la tendenza alla personificazione antropomorfica e alla feticizzazione di oggetti inanimati, di cui Marx e Freud furono i più grandi teorici, è più che altro un «sintomo incurabile»[28] . Anche Mikel Dufrenne, fenomenologo francese, ha definito lo statuto delle immagini come quello di una quasi-soggettività[29].
Citando a più riprese le meditazioni lacaniane sullo sguardo, sul desiderio e lo statuto dell’immagine, Mitchell si pone dunque una domanda particolare: Che cosa vogliono le immagini?[30] . La risposta più semplice è che esse «vorrebbero un certo potere sugli spettatori. […] In breve, il desiderio dei dipinti è di scambiarsi di posto con chi guarda, di immobilizzare o paralizzare l’osservatore, trasformarlo in un’immagine per lo sguardo del dipinto, in ciò che si potrebbe chiamare ‘l’effetto Medusa’.»[31].


Le immagini recano un germe di impotenza nei confronti del reale – perché in fondo sono “solo immagini”, pezzi di carta, agglomerati di pixel, sono variazioni sul reale -, una mancanza che però, paradossalmente, si trasforma in un potere.
Ci sono immagini che ci interpellano direttamente, i cui sguardi sembrano chiederci di immergerci nella loro superficie, di guardarle. Ci sono immagini, all’opposto, che sembrano «non voler proprio nulla»[33], i cui personaggi, se ci sono, non ci rivolgono alcuno sguardo oppure, nel caso dell’astrazione minimalista, che si distaccano il più possibile dal paradigma soggettivistico e antropomorfo[34]. Ci sono immagini in grado di offendere, di scandalizzare, di impressionare o di essere considerate pericolose. Le icone religiose, nella tradizione cristiana, sono il veicolo più importante di adorazione della divinità, esse vengono talvolta consumate dai baci e dalle carezze estatiche dei credenti. L’effetto dell’immagine può arrivare fino ad una pseudo ipnosi, come nel caso delle immagini cinematiche: pensiamo ad un bambino davanti alla televisione, bocca aperta e occhi fissi sul fascino dello schermo, non sbatte talvolta nemmeno le palpebre. L’immagine cinematica che unisce i due elementi di luce e movimento tende a generare un effetto ipnotico. Oggi le condizioni di immersività che caratterizzano l’esperienza delle immagini in 3D e degli ambienti virtuali mirano a obliterare la stessa distinzione tra reale e iconico.

Secondo Mitchell l’analisi critica delle immagini deve essere ricondotta alla loro ontologia visibile e carnale, alla loro relazione con lo spettatore e dunque, essenzialmente, al paradigma di originaria coappartenenza di guardare ed essere-guardato, voyeurismo ed esibizionismo che più che mai caratterizza la nostra “società visuale”: «Questo terreno complesso di reciproci sguardi non è soltanto un effetto secondario della realtà sociale, ma la costituisce attivamente. La visione è importante quanto il linguaggio nel mediare le relazioni sociali, e non è riducibile al linguaggio, al ‘segno’ o al discorso. Le immagini vogliono avere gli stessi diritti del linguaggio, non essere trasformate in un linguaggio.»[35].



[1] J. Lacan, Il seminario. Libro XI, cit., p. 91.

[2] A. Pinotti, A. Somaini, Cultura Visuale, Einaudi, Torino 2016, p. 110.

[3] A. Pinotti, A. Somaini (a cura di), Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, Cortina, Milano 2009, pp. 16-17.  Gottfried Boehm, inventore del termine, afferma: «vogliamo caratterizzare il ritorno delle immagini, che a partire dal XIX secolo si compie su diversi livelli, come ‘svolta iconica’.» (G. Boehm, Was ist ein Bild? in A. Pinotti, A. Somaini (a cura di), Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, cit., p. 42). L’altra variazione terminologica di questo viraggio dell’attenzione verso l’immagine è quella di pictorial turn proposta da Mitchell. (Cfr. W. J. T. Mitchell, What do pictures want?The lives and Loves of Images (2005), trad. it. di S. Pezzano in A. Pinotti, A. Somaini (a cura di), Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, cit., pp. 99-133, qui p. 101). Per un’introduzione a questa costellazione tematica, Cfr. “Introduzione” in ivi, pp. 9-29.

[4] Ivi, p. 10.

[5] G. Didi-Huberman, L’image brûle, trad. it. di S. Guindani in A. Pinotti, A. Somaini (a cura di), Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, cit., pp. 211-268, qui p. 243.

[6] A. Pinotti, A. Somaini, Cultura Visuale, cit., p. 112.

[7] Ivi, p. 129. 

[8] Il concetto di aura si può interpretare anche come quello di un potere dello sguardo di cui l’immagine è dotata. Benjamin, in Su alcuni motivi in Baudelaire, scrive: «L’esperienza dell’aura riposa quindi sul trasferimento di una forma di reazione normale nella società umana al rapporto dell’inanimato o della natura con l’uomo. Chi è guardato o si crede guardato alza gli occhi. Avvertire l’aura di un fenomeno significa dotarlo della capacità di guardare.» (W. Benjamin, Aura e choc., cit., p. 197). Questa prospettiva è già stata analizzata nel capitolo 2, attraverso la mediazione interpretativa in chiave contemporanea di Didi-Huberman.  Cfr., qui, paragrafo 2.2.1. 

[9] Cfr. “Introduzione” in W. Benjamin, Aura e choc., a cura di A. Pinotti, A. Somaini, Einaudi, Torino 2012, pp. 5-13.

[10] Ibidem.

[11] J. Crary, Le tecniche dell’osservatore, cit.,  pp. 8-9.

[12] A. Pinotti, A. Somaini, Cultura Visuale, cit., p. 133. Anche Pietro Montani indaga la questione della flessibilità e della reciprocità dei rapporti tra percezione e ambiente nell’ambito di quella che lui stesso definisce Tecnoestetica. Cfr. P. Montani, Tecnologie della sensibilità, Cortina, Milano 2014.

[13] G. Boehm, Was ist ein Bild? in A. Pinotti, A. Somaini (a cura di), Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, cit., p. 45.

[14] Ivi, p. 44.

[15] Ivi, p. 42.

[16] Ivi, p. 46.

[17] Ivi, p. 59.

[18] Ibidem. 

[19] Ivi, p. 57.

[20] Ivi, p. 58.

[21] Ibidem.

[22] Riporto qui una frase di Lacan vicina alla tematica del contrasto visivo: «In ciò che si presenta a me come spazio della luce, ciò che è sguardo è sempre un certo gioco di luce e opacità.» (J. Lacan, Il seminario. Libro XI, cit., p. 95).

[23] G. Boehm, Was ist ein Bild? in A. Pinotti, A. Somaini (a cura di), Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, cit., p. 58.

[24] Ibidem.

[25] Ivi, p. 65.

[26] Ivi, p. 62.

[27] Ivi, p. 60.

[28] W. J. T. Mitchell, What do pictures want? The lives and Loves of Images in A. Pinotti, A. Somaini (a cura di), Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, cit., p. 102. Come scriveva anche Lacan, «È il caso di dire, imitando Aristotele, che l’uomo pensa con il suo oggetto.» (J. Lacan, Il seminario. Libro XI, cit., p. 61).

[29] L’oggetto estetico è definito da Dufrenne come un quasi-soggetto in virtù del rapporto attivo che mantiene nel proprio essere con lo spazio e con il tempo. Cfr. M. Dufrenne, Fenomenologia dell’esperienza estetica, L’oggetto estetico, vol. I, trad. it. di L. Magrini, Lerici, Roma, 1969, p. 334.

[30] Cfr. W. J. T. Mitchell, What Do Pictures Want? The lives and Loves of Images in A. Pinotti, A. Somaini (a cura di), Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, cit.

[31] Ivi, p. 107.

[32] Ivi, p. 107.

[33] Ivi, p. 114.

[34] «Immagini che non vogliono essere immagini» - commenta Mitchell - «ma il desiderio di non mostrare desiderio è, come ci ricorda Lacan, ancora una forma di desiderio.» (Ivi, p. 116).

[35] W. J. T. Mitchell, What Do Pictures Want? The lives and Loves of Images in A. Pinotti, A. Somaini (a cura di), Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, cit., p. 119.